Austin Cooper S 1071, l'inizio di un mito - Automobilismo

2022-11-15 16:30:34 By : Mr. Xinquan Chen

È stato John Cooper, titolare del team campione del mondo F1 nel 1959 e 1960, a convincere la dirigenza della BMC della necessità di realizzare una Mini spiccatamente sportiva. Questa che vi presentiamo è la rara 1071, “base” della vettura che vinse, per la prima volta, il Rally di Montecarlo del 1964..

Alla fine degli anni Cinquanta l’ingegner John Newton Cooper - pilota e co-fondatore della Cooper Car Company, produttrice monoposto per Formula 1, Formula2 e Formula 3 - “incontra” la neonata Mini. E il futuro per la piccola inglese sarà molto diverso da quello ipotizzato dal suo geniale progettista, Sir Alec Issigonis.

Questi, infatti, ha lavorato per realizzare una vettura compatta, maneggevole, abitabile, economica e parca nei consumi, in grado di rispondere alle esigenze di un mercato europeo che “patisce” la scarsità ed il prezzo elevato della benzina innescato dalla crisi di Suez del 1956. Tuttavia, con caparbietà (leggi prove pratiche) John Cooper convince l’inizialmente scettico Issigonis a regalare alla vettura anche un tocco sportivo.

Tocco che, grazie agli importanti risultati agonistici raggiunti, diventerà il biglietto da visita di questo modello, accompagnandolo fino ai giorni nostri, nell’attuale generazione nata dall’arrivo… in fabbrica del marchio BMW. Davvero un grosso fenomeno nella storia di questo modello e anche dell’automobilismo stesso: negli anni Sessanta e Settanta i clienti dal carattere più sportivo (e dal portafogli ben fornito) acquistano la Mini Cooper, mentre gli altri la sognano, “accontentandosi” eventualmente della versione normale, magari dotandola di elementi tipici della Cooper, come verniciatura bicolore, ruote maggiorate, volante e strumentazione specifici.

E i più intraprendenti intervengono anche sul motore - prima da 850 cc poi da 1.000 - con risultati sempre legati alla bravura di chi esegue l’intervento e alle possibilità economiche di chi lo richiede. E la storia si ripete, almeno in parte, negli anni Ottanta e Novanta, con le Mini marchiate Austin e poi Rover.

Le Cooper della serie MK1 Ma andiamo per ordine. Quando viene lanciata nel 1959 nella sua prima serie denominata MK1, la “piccola” della BMC (British Motor Corporation) è offerta con il marchio Morris abbinato al nome Mini Minor e con il marchio Austin abbinato al nome Seven.

Anche le Cooper della stessa serie mantengono il doppio marchio. La prima viene lanciata nel 1961 con motore di 997 cc da 55 CV (21 in più della “normale” con motore di 850 cc) con alimentazione a doppio carburatore, freni a disco anteriori da 7 pollici (senza servofreno) assetto ottimizzato, sempre con sistema a coni in gomma più ammortizzatori.

Esternamente adotta la verniciatura bicolore, i paraurti con paracolpi ai quattro angoli, e affida la differenziazione tra i marchi Austin e Morris esclusivamente alle scritte sui cofani e alla mascherina (7 barre orizzontali per la Morris, 10 per la Austin).

Internamente, rivestimenti in vinile coordinati al colore esterno, apriporta specifico nella zona della serratura (senza la corda della Minor, ma con una leva cromata), strumentazione centrale con tachimetro che visualizza 100 mph (160 km/h), leva cambio “corta” in posizione centrale e non avanzata, volante a due razze in materiale plastico nero con clacson rifinito con la “M” di Morris oppure con il logo di Austin.

Il piccolo vano posteriore, che alloggia serbatoio della benzina, batteria e ruota di scorta con relativa trousse di attrezzi, presenta una pavimentazione rigida e il rivestimento fonoassorbente del cofano.

Questa versione esce di produzione già nel 1964, ma intanto, nel 1963 sulla Austin e sulla gemella Morris arriva il motore 998 cc da 56 CV che - con opportuni aggiornamenti - avrà una carriera lunghissima: nel 1967 sarà infatti adottato sulle Austin/Morris Cooper e sulle versioni normali (compresa la Traveller) della serie MK2; negli anni Settanta - con l’arrivo della British Leyland e la scomparsa del doppio marchio Austin/Morris - equipaggerà la Mini 1000 e la Mini 1000 Cooper; negli anni Ottanta verrà montato da tutti i modelli 1000, compresa la elegante Mayfair marchiata Austin Rover.

1963, arriva la 1071 e non solo Ma torniamo al 1963, quando inizia una nuova era. In quell’anno giunge all’esordio la gamma Cooper S, pensata come base per l’utilizzo sportivo. Inizialmente viene adottato un inedito motore di 1.071 cc da 70 CV sviluppato da Morris Engine, che introduce anche altri elementi come i cerchi ruota forati da 10”x3,5”, i dischi maggiorati da 7”1/2, il servofreno, il doppio serbatoio (opzional) il radiatore dell’olio. Nel 1964 questa unità lascia spazio ad un 970 cc da 65 CV e ad un 1.275 cc da 76 CV che successivamente verranno abbinati alle sospensioni Hydrolastic.

Il primo, grazie alla corsa cortissima, raggiunge regimi di rotazione molto elevati rivelandosi particolarmente “cattivo”; viene prodotto solo fino al 1965, trasformando la vettura in un pezzo estremamente raro, con soli 963 esemplari costruiti. Il secondo ha prestazioni più corpose e si caratterizza per l’elevato consumo di benzina e olio, tanto che - così come la Cooper S 1071 - la vettura viene equipaggiata con il serbatoio supplementare per la benzina e il radiatore dell’olio.

Rimane in gamma sino all’esaurimento della serie MK1 nel 1967 e poi si sposta sulle successive MKII e MKIII, diventando il “simbolo” stesso della Mini Cooper. Infine, in versione depotenziata continua ad essere utilizzato sulla Mini sino al 2000, tornando poi ad essere il cardine della versione Cooper nel 1991, quando questa versione viene reintrodotta dopo uno stop produttivo di circa 20 anni da parte della British Leyland e 16 da parte di Innocenti.

Dalle prime Cooper S la magia del Montecarlo Riguardo all’utilizzo sportivo della gamma Cooper S, va sottolineato come la versione di 1.071 cc del 1963 nasce per gareggiare nelle classi oltre i 1.000 cc, la 970 cc rientra invece nella categoria delle piccole cilindrate mentre la 1.275 cc è pensata per competere nella classe assoluta, senza limiti di cilindrata, e prenderà il posto della 1071. Vetrina di assoluto rilievo è il Rally di Montecarlo, dove peraltro la BMC già nel 1960 schiera sei esemplari quasi di serie con motore 850 cc; quattro arrivano al traguardo e il britannico Peter Riley ottiene il 23° posto assoluto.

Poi arrivano le Cooper 997 cc e i primi risultati: nel 1962 Pat Moss, sorella di Stirling, alla manifestazione monegasca si aggiudica la Coppa delle Dame, mentre il finlandese Rauno Aaltonen si ritira sul finale dopo essere stato secondo. Un anno più tardi è terzo e getta le basi per un periodo entusiasmante che legherà per sempre la competizione a questa piccola vettura.

Nel 1964, infatti, la nuova Morris Cooper S 1071, con motore portato a circa 85 CV, si aggiudica il Rally di Montecarlo. Sul tortuoso tracciato, il rallista irlandese Patrick Barron “Paddy” Hopkirk (scomparso lo scorso mese di luglio a 89 anni) e il suo navigatore Henry Liddon fanno il vuoto, consegnando alla storia la rossa inglesina con il numero 37. E non è sola: al quarto e al settimo posto si piazzano infatti le Cooper S di Timo Makinen e Rauno Aaltonen. La vittoria viene festeggiata con particolare entusiasmo: Hopkirk riceve anche telegrammi di congratulazioni dal Governo britannico e pure dai Beatles.

L’anno seguente i “tre moschettieri” monopolizzano il podio con la nuova Cooper S con motore di 1.275 cc (76 CV nella versione di serie) che chiuderà la saga sportiva e produttiva della vettura: dunque, vittoria di Timo Makinen, piazza d’onore per Rauno Aaltonen e terzo gradino per Paddy Hopkirk. La storia potrebbe ripetersi nello stesso ordine nel 1966, quando i tre piloti dominano tutto il rally, ma le vetture – dopo un reclamo della Citroën – vengono incredibilmente squalificate per la mancata conformità al regolamento di un particolare dei fari (un insignificante cablaggio). Un colpo basso che viene riscattato l’anno dopo, con la vittoria di Rauno Aaltonen coadiuvato da Henry Liddon. Hopkirk, invece giunge sesto, ma l’anno successivo è quinto, con Aaltonen che giunge sul terzo gradino del podio.

Un modo più che brillante per chiudere un’era e lasciare spazio a vetture più moderne e prestazionali. Le prestazioni fanno rima con le emozioni Detto questo, riuscire a fare un giretto sulla Cooper S 1071 sarebbe stato il modo ideale per ricordare quel primo Montecarlo vinto tanti anni fa. E ci siamo quasi riusciti, visto che abbiamo avuto a disposizione non la Morris Cooper S da cui è derivata la celebre rossa “numero 37” di Hopkirk, ma la sua gemella. Ossia, una Austin Cooper S MK1 1071 messaci a disposizione dalla ToMini di Torino che ne sta curando il passaggio di proprietà e anche la cura di alcuni dettagli tramite la “sua” officina di fiducia, RM Garage di Settimo Torinese. La vettura è stata prodotta nella fabbrica di Longbridge il 25 marzo 1964 (circa tre mesi dopo la celebre vittoria, dunque) e tre giorni dopo è stata spedita in Francia, a Parigi. Quindi presenta la guida a sinistra.

Fatta questa premessa, qualche anno fa l’auto è stata oggetto di un restauro che ha rispettato in ampia misura le specifiche originali e offre quindi un impatto visivo altamente emozionale. Poi, come non ricordare che con la Morris questa versione ha aperto l’era delle sportive estreme della BMC, dando il “la” alla passione per tutte le Mini Cooper? Durante il restauro, esternamente la verniciatura iniziale Almond Green monocolore (ottenibile a richiesta) è stata completata con il tetto in Old English White: un abbinamento previsto al tempo come finitura di serie dalla Casa. Internamente sono stati mantenuti i colori Porcelain Green/Dove Grey per i sedili in similpelle e in Porcelain Grey per moquette. In pratica uno dei numerosi abbinamenti (una decina) adottati da entrambi i marchi per questo modello Cooper S 1071.

Rispetto alla Morris, l’Austin si distingue esternamente per la mascherina con barre orizzontali più sottili e numerose (10 contro 7), il marchio sul cofano e la scritta “Austin Cooper S” sul cofano posteriore, posizionata sopra la targa. Poi, ecco una serie di elementi comuni altamente caratterizzanti, come le portiere con cerniere esterne e cristalli scorrevoli, i cristalli posteriori apribili ma leggermente più bassi dei successivi (che arriveranno sino alla grondaia), i paraurti completati da paracolpi sui quattro spigoli, le piccole luci posteriori, il bocchettone della benzina supplementare sul lato destro, che alimenta il serbatoio aggiuntivo, previsto come opzional.

Completano il tutto alcuni elementi propri della “nostra” vettura aggiunti in un secondo momento, quali i fari supplementari, la cinghia di cuoio per il fissaggio del cofano anteriore, i cerchi in lega Minilite da 4,5x10” a otto finestrature con pneumatici Yokohama 165/70, in luogo degli originali in lamiera da 3,5” a 9 fori, con pneumatici radiali Dunlop 145 SR10. Curiosi e anche esteticamente discutibili i due grossi retrovisori esterni cromati, applicati in un secondo tempo sulla parte alta dei parafanghi che, oltre a essere diversi da quelli opzionali previsti all’epoca, ricordano più una vettura per traino caravan che una compatta dall’animo sportivo.

Questo emerge invece chiaramente all’interno, dove si viene accolti dai sedili ben conformati rivestiti in similpelle e dall’ampia plancia rifinita in grigio, con strumentazione ovale al centro, completata da un contagiri separato, montato dietro il piantone dello sterzo. Da segnalare che, essendo una vettura destinata alla Francia, il grosso tachimetro offre la lettura in chilometri orari (e non in miglia orarie) ed è scalato sino ai 200. Molto bello il volante in legno a tre razze della britannica Moto Lita, un raffinato accessorio dell’epoca che ha sostituito (probabilmente sin dagli inizi) quello di serie in materiale plastico nero.

Una curiosità: il piccolo pulsante sul pavimento a lato della pedaliera è il devio luci, mentre a destra del piantone sterzo, presso la mensola, è collocata la pompetta manuale dei lavacristalli. Essenziale, ma ben rifinita, la vettura adotta pannellerie in finta pelle leggermente imbottite ad elementi orizzontali, che replicano il grigio della plancia e della moquette a pavimento. Le portiere, con grossa tasca portaoggetti inferiore, presentano un sistema specifico di apertura: non la classica cordicella delle varianti “normali” dell’epoca, ma una lunga maniglia metallica, comoda da azionare e decisamente più elegante.

Un tocco di frivolezza al divano posteriore, sotto il quale sono alloggiate due ceste in vimini “dedicate”, opzional dell’epoca, che compensano almeno in parte al poco spazio disponibile nel vano posteriore. Questo, infatti, sul lato destro ospita anche il serbatoio supplementare (da 25 litri, come il primario) e dispone di una protezione rigida sopra la ruota di scorta e la batteria, nonché di un pannello fonoassorbente che rifinisce internamente il cofano. Anteriormente, ecco il “gioiello di famiglia”, ossia il 4 cilindri di 1.071 cc da 70 CV montato in posizione traversale, che occupa completamente il piccolo vano grazie anche alla presenza del doppio carburatore, del “vassoio” con due filtri aria circolari, del servofreno, del radiatore dell’olio (nella parte bassa frontale).

Il motore è abbinato con un cambio a quattro rapporti con gli ultimi tre sincronizzati e rapporto finale di 3,44:1; come consuetudine il cambio è montato sotto al motore e prevede un circuito di lubrificazione comune. La meccanica si completa con semiassi dotati di giunti omocinetici, freni anteriori a disco da 7”1/2, sospensioni con elementi in gomma montati su telaietti indipendenti e sterzo a pignone e cremagliera, con 2 giri e 1/3 del volante da parte a parte. A conclusione, ecco l’impianto di scarico monotubo cosiddetto “Continentale” con due strozzature supplementari presso il silenziatore, adottato sulle vetture esportate in Francia, Italia, Svizzera e Giappone.

Nel suo insieme una meccanica robusta, come sottolineano esperti e meccanici, che nella norma richiede pochi interventi di manutenzione per essere in efficienza. Su tutti, attenzione al livello e alla qualità dell’olio lubrificante che va a svolgere un lavoro gravoso, operando sia sul motore sia sul cambio e deve essere sostituito almeno ogni 10.000 km. Poi, ogni 5.000 km ingrassaggio dei punti previsti e ogni 10.000 km controllo tensione cinghia ventilatore, registrazione gioco della frizione e delle valvole, verifica contatti ruttore, lubrificazione del ruttore e del cuscinetto posteriore della dinamo, verifica convergenza e allineamento ruote.

Davvero non molto per una sportiva di quell’epoca. In effetti - e qui apriamo una parentesi - quella delle Mini delicate o propense a rompere (dalle normali alle sportive) è una leggenda metropolitana: i problemi generalmente arrivavano per mancanza di manutenzione o per interventi di potenziamento effettuati malamente. Torniamo alla nostra Cooper S, anzi mettiamoci al volante! Subito ci troviamo nell’area più esclusiva del mondo delle Mini classiche che in parte ben conosciamo.

L’accesso è agevolato dalle ampie portiere e i sedili risultano ben conformati, anche se con schienale fisso. L’impostazione di guida è quella tipica, con volante orizzontale e leva del cambio sottomano. Decisamente minuti i pedali di freno e frizione (con il primo più spesso del secondo) oltretutto in lamiera nuda. Comodo l’acceleratore sospeso che su questa vettura è stato dotato di ampio appoggio supplementare.

La visibilità è quella nota di questo modello, con parabrezza poco inclinato e di altezza contenuta, grosse vetrature laterali e lunotto ampio. Insomma, ci si sente a casa propria. Ma il grosso tachimetro centrale scalato a 200 e il contagiri che indica 8.000 giri ci ricordano che siamo su qualcosa di speciale.

E lo scopriamo non appena giriamo la chiave di accensione: il suono allo scarico è musica per le orecchie e la lancetta del contagiri balza in avanti appena si sfiora l’acceleratore. Prima e si parte: la risposta è entusiasmante. Settanta CV non sono tanti? Beh, con un peso di 640 kg, il cambio a rapporti ravvicinati e la propensione del motore a prendere giri rapidamente, ci si diverte davvero.

Se poi aggiungiamo le dimensioni extracompatte, lo sterzo direttissimo, i freni che fanno bene il loro lavoro, il piatto è servito! Certo, le ruote da 10” e le sospensioni non sono fatte per il comfort sul pavé o sulle sconnesse strade urbane. Ma quando si esce dalle città e l’asfalto è bello, viene proprio voglia di adottare il famoso “stile Hopkirk” con acceleratore incollato al pavimento e gran lavoro di sterzo e freno a mano.

Ma certe cose non si fanno e poi… lui era lui! Resta la soddisfazione di esserci messi al volante di questo autentico pezzo di storia dell’automobile e dell’universo Mini che ci ha fatti emozionare sin dal primo sguardo.

E proviamo anche una certa invidia nei confronti del futuro proprietario. Il quale dovrà sborsare una cifra piuttosto impegnativa! verso il trionfo La mitica Cooper S “numero 37” di “Paddy” Hopkirk e Henry Liddon viaggia spedita verso la vittoria al “Monte” 1964.

La vettura era derivata dalla Morris Cooper S 1071 mentre quella del nostro servizio è la gemella Austin Cooper S, che differisce solo per la mascherina, le scritte e alcuni fregi. equipaggiamento extra La Austin Cooper S 1071 messaci a disposizione dallo show room torinese ToMini.

Prodotta nel 1964 per il mercato francese, è stata poi equipaggiata con cerchi in lega Minilite da 4,5”, fari supplementari, cinghia in cuoio per il cofano e strani retrovisori esterni.

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